Se ora lo stemma di Cervia è tornato ad essere l’immagine della città, io ricordo il nonno Carlo quando ne componeva i caratteri nella tipografia.
Lo stemma di Cervia l’aveva ereditato dal padre, ed era diventato ben presto il simbolo della Città del sale. Fu stampato dalla Tipografia Saporetti nel 1905, ed ora che è stato recuperato dal Comune dopo un accurato lavoro di ricerca, riaffiora la identità mai sopita.
“Oltre ad essere di grande impatto visivo – sottolinea il sindaco Luca Coffari -, ha un forte contenuto simbolico, richiamando la nostra identità, la storia e la profondità delle nostre tradizioni. E’ una storia che ci deve rendere orgogliosi e che già da allora parlava di comunitas”.
Nello stemma di Cervia è contenuto infatti l’espresso richiamo alla “Comunitas civitatis Cerviae”, ovvero a quella comunità cervese che ha tracciato un solco nel corso dei millenni, con al centro il cervo dal quale potrebbe derivarne il nome. Si tratta di una immagine che trasuda memoria ed emana tutta la sua carica evocativa.
La riproduzione più antica dello stemma di Cervia risale comunque alla metà del XVI secolo, proveniente dalla Città vecchia. Particolarmente pregevole è poi la riproduzione del 1588, dal frontespizio dello Statuto di Cervia antica, cui segue quella del 1851, disegnata da un cervese su richiesta del prefetto pontificio in occasione di una visita di Pio IX in Romagna. Una successiva variazione compare nel 1867, sul frontespizio di un rendiconto della Giunta municipale ai deputati e ai senatori del Regno d’Italia, che riguardava lo stabilimento salifero.
Nelle carte intestate del Comune lo stemma appare per la prima volta nel 1878, con il sindaco Bellucci. E arriviamo appunto al 1905, quando il tipografo Pirro Saporetti – zio di Carlo e fratello di suo padre Vincenzo -, disegna lo stemma che l’amministrazione comunale ha utilizzato fino al 1982. Il logo viene poi rivisitato, tanto che nel 2009 perde anche la dicitura “Città di Cervia”.
Quella Tipografia ha lasciato un segno indelebile anche nel mio passato. Sapeva di inchiostro e fichi secchi, io mi aggiravo fra i macchinari in pantaloni corti. Avevo quasi freddo, in quei locali vetusti ma orgogliosi, che odoravano di guerra, profumavano di pace, trasudavano lavoro. Anche d’estate, c’era un fresco che si spargeva sulle cose, sugli operai, sulle mattonelle in cotto ormai consunte. La quiete si alternava al rumore delle stampanti, che sembrava rompessero un silenzio millenario. I nuovi macchinari eruttavano volantini e manifesti. A ripetizione, come una mitraglia.
Anche in quell’angolo storico della Via XX Settembre era arrivato il progresso. Ma nonno Carlo continuava a comporre i suoi caratteri, chino sui cliché, frutto di un’arte che si spande come l’orizzonte. E usava ancora quel linguaggio che fa pensare alla poesia di un altro mondo, dove “l’albero a cui tendevi la pargoletta mano” è lì, accanto a te, ti vuole abbracciare. Mentre intorno era tutto un fiorire di arabeschi, per far capire, appunto, che senza l’arte non si va lontano. I gesti, i rituali, quel suo spostarsi da un banco all’altro mentre scambiava quattro chiacchiere con l’amico di passaggio, erano il suo piccolo mondo antico.
Un mondo nato nel 1881, con la inaugurazione della Tipografia Saporetti, le autorità in pompa magna, il padre Guglielmo che si accingeva a tagliare il nastro. Era il 17 dicembre, iniziava l’era dei “nuovi caratteri delle fonderie più accreditate, svariati nella forma… la modicità dei prezzi, la qualità delle carte, la nitidezza della stampa, anche a colori e dorature”. Nonno, da garzone con un grembiale lungo fino ai piedi, che sembrava l’arcobaleno ma era invece un catalogo viaggiante di tonalità, iniziò così la sua fulgida carriera. Stropicciandosi addosso, appunto, ogni barattolo di colore di cui potesse disporre la tipografia. “Stai attento – mi diceva – che adesso la macchina fa un miracolo. Vedrai che cosa aveva nella pancia. Poi ti regalo un manifesto dello Sposalizio del Mare, così lo porti a scuola”. Già, a scuola… mi sforzavo di farlo uguale, ma i colori non venivano mai bene. E nemmeno gli arabeschi, perché a disegnare ero negato. Mamma, pittrice per davvero, mi incoraggiava. Ma le madri sono così, adesso lo capisco, ciò che fai è una carezza sulla guancia.
Insomma, nonno Carlo, o Carluccio come lo chiamavano, mi sembrava sempre in vena di magie. E quei manifesti profumati, sgargianti, solari, palpitanti di parole annunciatrici, avevano un’anima. “T’an ste’ mai ferum – mi diceva poi, quando ero stanco di guardarlo sempre in quella posa seria -; dai, andiamo nel cortile, che ci sono i fichi”. Ah quell’albero, sprofondato nell’erba alta come fosse seta, e il cancello che chiudeva cigolando un paradiso.
In quell’angolo il tempo si era trasformato nello schizzo di un pittore. Non era passato, nemmeno presente, forse futuro perché proiettava nel cielo la felicità. Nonno mi posava una mano sulla spalla, e parlava sottovoce per non disturbare l’incantesimo. O magari non voleva spaventare i fichi, poi non maturavano, chissà. “Nonno, quest’anno non tagliare l’erba, altrimenti dove mi nascondo?”, gli dicevo, sperando di prenderlo nell’estasi e strappargli un si. “Ma non è la giungla, qui, questa è una tipografia. Vuoi nascondere anche i clienti?”, mi rispondeva, accarezzandomi la testa. Ecco, le magie voleva farle solo lui, io dovevo accontentarmi di imparare. Ma vedere Carluccio all’opera, mi dava quella sensazione di essere al sicuro. Ci pensava lui a parlare con il mondo, ricevendo le notizie del futuro. Poi, anche quelle brutte, le trasformava con i suoi caratteri. Componeva i testi annunciando tante storie a lieto fine; la gente si sposava, apriva un negozio, un albergo, inaugurava una fontana, trovava una nave antica, pescava l’anello in mare, metteva un po’ di sale nei cestelli.
Che mondo commovente era quello, dove nessuno poteva fare mai del male. Ma non me la raccontava proprio giusta, lo sapevo. Anni prima qualcuno l’aveva costretto, lì dentro, senza un briciolo di lavoro. E non poteva stampare più con quel linguaggio ondoso, che sa di mare libero, spuma all’orizzonte, increspature opalescenti. Eppure, mi diceva, chi fa la voce grossa poi diventa rauco. “Invece noi lasciamo maturare i fichi, e poi li diamo a chi li vuole. Vedrai che festa. Il mondo non è mica fatto di padroni…”. Eh si, nonno creava come l’aveva creato la natura; ma non voleva che gli cambiassero una virgola, ognuno è fatto a modo suo, mi sussurrava… E quando mi prendeva per la mano, salivo in cima al mondo, quel “suo” mondo. Perché il contatto trasmetteva mille vibrazioni: era l’eruzione del vulcano, lo sciacquio dell’onda, il ruggito del tuono, la carezza del vento.
Da bambino, sentivo che quella forza mi faceva diventare grande. Ma senza gli scossoni che ti fanno sbattere la testa. No, lui mi recitava Rilke: “Sogno… vedo un piccolo villaggio, una gran pace…. un cantar di galli… profumo di lavanda…”. Nonno, mi hai fatto sognare. Poi la vita si riprende tutto, e non sono solo spiccioli ma pure gli interessi. Però una stella, lassù, si è messa il tuo cappello. E illumina un giardino dove le rose non sfioriscono. Mamma l’ha dipinta, risplende anche la casa adesso, che ho rimesso il quadro sul cavalletto. Nonno, dimmi che non è finita, che mi hai lasciato un volantino nel cassetto. Dimmi che l’hai disegnata lì, la bussola, e se la seguo arrivo ancora nel cortile con l’albero dei fichi. Ti prometto che, stavolta, non mi annoierò. Neanche se componi un testo lungo un mese… Io ti guarderò, tutti i giorni, fino all’imbrunire.
Complimenti…sono tornato indietro di sessant’anni con tanti ricordi che il tempo aveva sopito.
Grazie.
Purtroppo a Milano Marittima manca il Cluny Bar. Classe, innovazione dei coniugi Manzi un ambiente signorile. Ricordo con un certo rimpianto il tempo che fu………. a volte ritorna !!! Un ringraziamento ai giovani ricercatori.